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Tragedie e comunicazione  
       
Le azioni terroristiche verificatesi a Londra il mese scorso, e quelle a Sharm el Sheikh hanno fatto riaffiorare i tristi e sconvolgenti avvenimenti dell’11settembre e dell’11 marzo rispettivamente a New York e a Madrid. Non si erano ancora spenti i riflettori sulle manifestazioni di gioia per il successo conseguito per la destinazione dei giochi olimpici del 2012 alla capitale britannica e alla grande partecipazione in favore dell’Africa del “Live 8”, quando il mondo è stato scosso dalle tragedie firmate da terroristi islamici. Mi riferisco a quanto accaduto di recente, perché appare fortemente attuale riguardo a un certo modo di fare giornalismo.
Tutti ricordiamo ancora con quale discrezione di supporti visivi le notizie riguardanti queste stragi sono state comunicate.
Nessuna disponibilità a fornire particolari sconvolgenti e raccapriccianti sulle vittime, i feriti o i luoghi presi di mira dai terroristi. Ad emergere era una grande compostezza e dignità e non il prurito dell’efferatezza da descrivere e documentare visivamente ad ogni costo per impressionare e, magari, per dimostrare di essere più documentati degli altri mass media.
Le immagini che giorno dopo giorno venivano trasmesse al mondo da giornali, radio e televisioni sembravano provenire tutte da un’unica fonte. Per descrivere la gravità degli eventi o il dramma delle famiglie colpite si è scelto uno stile rispettoso sia delle vittime che della verità dei fatti, senza mai indulgere nella curiosità morbosa. Questa scelta sembrava proprio condivisa da tutti, anche dai mezzi di comunicazione, e non soltanto dal potere politico o investigativo. A questo punto mi viene da pensare a un certo altro modo di raccontare l’accaduto e di presentare i fatti, soprattutto di cronaca nera, che spesso impera presso di noi in nome del così detto dovere di informazione e che propone, descrive e mostra quanto accaduto con una minuzia di particolari che disturba perfino il buon senso della gente comune. Nessuno vuole mettere in dubbio il diritto di conoscere come si sono svolti i fatti e, per chi informa, l’obbligo di essere garantito di piena autonomia nell’esercizio della propria professione. Diversamente non si avrebbe un’informazione pienamente libera. L’interrogativo è un altro: per garantire la verità, è sufficiente riportare la notizia così come si è svolta, oppure è necessario andare oltre? Scavare sul passato delle vittime, magari azzardando conclusioni solo ipotetiche che di fatto alterano la verità e danneggiano la dignità e la privacy della vittima in modo irreparabile, a cosa porta? O ancora, nella ricostruzione dell’evento, fino a che punto deve essere consentito rivelare elementi molto preziosi ai fini investigativi, se questo rischia di affossare le indagini e, quindi, la soluzione del caso, offrendo, a chi commette reati, vantaggi che talvolta mettono al riparo da ogni conseguenza? Tutti, quando finiscono al centro di una vicenda, restano amareggiati se notano che il cronista, nel descriverla, va oltre l’evento, svelando particolari troppo personali. In quei momenti si comprende quanto sia importante il rispetto dell’altro e quanto sia facile demolirne l’immagine e la dignità. Questo stile di comunicare non può essere certo regolamentato da codici comportamentali predefiniti, ma dalla sensibilità e dall’intelligenza degli scriventi e di quanti curano i supporti video. I giornalisti più apprezzati sono sicuramente quelli che nell’esercizio della professione non amano pescare nel torbido o fare commenti di parte, ma trattare le notizie e i protagonisti con rispetto e umanità. Forse comunicatori di questo spessore si nasce, non si diventa.
 
Maria Rita Marras
   
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