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Dio, il grande assente
 

Di anno in anno avverto sempre più chiaramente che c’è un mondo di giovani e adulti che mi scorre accanto senza alcun interesse per quello che credo e annuncio. I loro orizzonti spaziano su sistemi esistenziali e valoriali diversi dai miei. Sudano, faticano, sperano, soffrono né più né meno come accade a me, ma con finalità e modalità che scorrono parallele alle mie. Un altro mondo insomma che abita gli stessi miei spazi, contribuisce alla crescita della medesima società, si stupisce contemplando gli stessi paesaggi e che però, di fronte alle domande di senso, risponde riponendo la propria fiducia in argomenti di ragione che nulla hanno a che vedere con la mia fede di cristiano. Negli ambiti di impegno, nelle comunicazioni e, quindi, negli stili di vita di tante persone, Dio risulta essere, oggi, il grande assente. Su di lui non si avverte neppure la curiosità di una domanda: “Perché, nel corso della storia, l’uomo ha sempre creduto in lui? E perché, ai giorni nostri, sempre più persone non avvertono più neppure il bisogno di interrogarsi su di lui? Senza di lui quale risposta dare alle mille, profonde aspirazioni che sentiamo presenti in noi?”. Restano, è vero, in mezzo a noi i segni del divino che hanno contrassegnato, lungo i secoli, le vicende di molte generazioni e popoli: chiese, sinagoghe, moschee, immagini sacre in tutti i luoghi, dentro e fuori i centri abitati. Potremmo tranquillamente affermare che non esiste alcun linguaggio artistico che non faccia riferimento al sacro e alla dimensione spirituale dell’uomo. Mi chiedo, ancora: L’indifferenza di certuni verso la trascendenza e il divino è davvero un evento di progresso che io, insieme alla maggioranza di coloro che ritengono la fede ancora un valore, non riusciamo a cogliere e che ci stiamo lasciando sfuggire? Davvero la cultura è riuscita a d imboccare una strada più sicura, ad elaborare principi di vita più nobili e sensati, a fiaccare le ansie, le inquietudini e quel bisogno insopprimibile di speranza che sa andare oltre la congiunturalità di questo tempo? Appare quindi legittima un’altra domanda: “I fratelli e le sorelle che hanno scelto di non interessarsi più alla questione del “totalmente altro”, ritenendola superata e non più proponibile, in che cosa hanno migliorato la loro esistenza rispetto alla mia? (perché se così non fosse, risulterebbe incomprensibile la scelta di una forma di vita che appare ancora meno interessante). Rispetto a me credente, si sentono più contenti, più appagati, più capaci di dare risposte alle loro inquietudini?”.
Mi viene un dubbio: non è che Dio sia scomparso perché non si è più capaci di stare con se stessi, di coltivare una dimensione dell’esistenza fondata non sull’immagine, ma sulla interiorità? Cosa ci dice la coscienza quando ci determiniamo a scandagliare l’angolo più segreto e personale di noi stessi? Cosa potremmo mai concludere se accettassimo di credere che tutto e tutti siamo immersi nel mistero e siamo per noi stessi un mistero?

 

Don Giovannino

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